lunedì 31 maggio 2010

Pace, democrazia, interculturalità, conoscenza: le nuove sfide della res-publica europea come garante di beni pubblici e diritti collettivi

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

Pace, democrazia, interculturalità, conoscenza: le nuove sfide della res-publica europea come garante di beni pubblici e diritti collettivi

di Pier Virgilio Dastoli*


L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona1 chiude un lungo periodo di negoziati per la modifica dei Trattati di Roma del 1957, negoziati iniziati con l’Atto unico europeo del 1987 ma politicamente avviati con il progetto di Trattato del Parlamento europeo del 1984: un progetto ispirato alla pulita concezione del sistema federale spinelliano da realizzare attraverso l’azione politica, e non a concezioni fumose di federalismo ideologico destinato a prevalere prima in Europa e poi nel mondo per la sola forza della Ragione.

Il Trattato di Lisbona è un testo coerente con la concezione monnettiana del funzionalismo europeo ben descritta da Jacques Delors con l’espressione del “metodo dell’ingranaggio”. Esso contiene talune innovazioni importanti – fra le quali quella più significativa è probabilmente il carattere giuridicamente vincolante della ex Carta di Nizza (ora Carta di Strasburgo) – e consolida i passi in avanti compiuti dal 1987: la cittadinanza europea, i poteri del Parlamento europeo, gli obiettivi e le competenze dell’Unione al di là del mercato, la moneta unica, il primato del diritto dell’Unione e la sua personalità giuridica, la natura comunitaria e non più o non solo intergovernativa dell’organo che rappresenta gli Stati nazionali.

Dopo venticinque anni di negoziati, sei trattati e sei conferenze intergovernative – alle quali si sono aggiunte quelle per l’adesione di diciotto nuovi paesi e per due modifiche “costituzionali” alle disposizioni finanziarie e di bilancio –, governi nazionali e Parlamento europeo escludono la possibilità che si possa aprire nel medio periodo una nuova procedura di modifica dei Trattati.
In politica ed in particolare in politica europea il medio periodo corrisponde più o meno ad un decennio e l’opinione comune a Bruxelles e nelle capitali dei paesi membri è che una nuova fase costituente non si aprirà che alla vigilia del prossimo grande allargamento dell’Unione europea ai Balcani Occidentali (Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Albania, Kosovo) e dell’ultima fase di negoziati con la Turchia, dando per scontato che Croazia e Islanda entrino nell’Unione già durante questa legislatura.

Continua in Europa 2.0

PIER VIRGILIO DASTOLI, ha creato l’Intergruppo parlamentare federalista per la costituzione europea nel 1986. Ha promosso la convocazione di un referendum consultivo sull’Europa in occasione delle elezioni europee del 1989. Ha creato il Forum permanente della società civile europea. Ha organizzato il Congresso dell’Aja del 1998 ed ha lanciato una campagna per dotare l’Ue di una Carta che definisca i beni ed i diritti collettivi. È stato segretario del Movimento Europeo Internazionale e direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Ha pubblicato numerosi volumi sull’integrazione europea e collabora alla rivista “Il Mulino”. Siti: www.forum-civil-society.org.

La tutela dei diritti fondamentali dopo Lisbona

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

La tutela dei diritti fondamentali dopo Lisbona

di Giuseppe Bronzini*

Un rigo di penna sovranazionale, il nuovo art. 6 del Trattato sull’unione europea (Tue), e il supremo “signore dei Trattati” (purtroppo ancora la Conferenza intergovernativa, anche se vincolata dal “metodo convenzionale” come metodo ordinario per guidare il processo di revisione) potrebbe aver radicalmente mutato il sistema di tutela dei diritti fondamentali nel Vecchio continente, e con ciò il ruolo della giurisdizione nell’ambito del sistema giudiziario europeo multilivello. Sostanzialmente in una riga, grazie all’intuito di Giuliano Amato1, si è risolto il problema dell’efficacia di quella Carta che fu “proclamata” oltre nove anni orsono a Nizza, siglata dalle tre istituzioni dell’Ue (Commissione, Consiglio e Parlamento) e pubblicata, ma non nella Gazzetta ufficiale, già nel 20002.

Questa soluzione è stata trovata nel contesto più ampio del completamento delle riforme istituzionali dell’Unione con il varo del nuovo Trattato; vengono così a completarsi due processi collegati ma concettualmente separabili, il primo iniziato con il Consiglio di Colonia del 1998, relativo alla codificazione di un Elenco solenne di diritti fondamentali appannaggio dei cittadini europei (operazione conclusa solo con la definizione della natura giuridica di tale Elenco stilato dalla prima Convenzione) ed il secondo con il successivo Consiglio di Laeken di approntamento di un sistema di regole appropriate per una Unione ormai a ventisette Stati; regole più trasparenti, più democratiche, non paralizzanti e comunque tali da conferire un ruolo più attivo all’Unione sulla scena globale. Il progetto di “costituzione europea” cercava di saldare le due linee di sviluppo del processo di integrazione in un nesso che si voleva di natura costituzionale, ma sul punto non intendo soffermarmi; forse è ancora presto per fare un bilancio del dibattito quasi decennale sul tema, meglio fermarsi a constatare che la Carta è stata incorporata nei Trattati e che la sua natura obbligatoria e vincolante è ormai indiscutibile e che d’altra parte questo storico passaggio è strettamente (ed anche formalmente, visto che è previsto nel medesimo Trattato) connesso al rafforzamento istituzionale del soggetto sovranazionale – Unione europea – che viene dotata di nuove regole la quali, su quasi tutti i temi, sono le stesse elaborate dalla seconda Convenzione: dalla politica estera alla soppressioni dei pilastri, dalla codecisione come principio ordinario per il processo legislativo, all’estensione del voto a maggioranza, dai nuovi poteri di iniziativa dei cittadini europei (art. 14), alla figura della Presidenza stabile ecc.

Continua in Europa 2.0

GIUSEPPE BRONZINI, Consigliere di Cassazione. Ha curato La Carta dei diritti dell’Unione europea (Chimienti, 2009), Le prospettive del welfare in Europa (Viella, 2009). Autore de I diritti del popolo mondo (Manifestolibri, 2004). Membro della Fondazione Basso, del Mfe e dell’Osservatorio sul rispetto dei Diritti Fondamentali in Europa. Socio fondatore del Basic Income Network Italia. Tra i promotori della campagna per la cittadinanza europea di residenza e per “un reddito garantito europeo”. Siti: www.europeanrights.eu; www.binitalia.org.

venerdì 28 maggio 2010

Verso un modello sociale europeo adeguato ad affrontare i rischi del XXI secolo

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

Verso un modello sociale europeo adeguato ad affrontare i rischi del XXI secolo


di Grazia Borgna*

Il modello di sviluppo neoliberista di ispirazione americana che ha condotto fin qui la globalizzazione e che ha portato alla crisi globale attuale è stato fallimentare. Non ha reso compatibile lo sviluppo economico con la pace, il rispetto dei diritti sociali e dell‘equilibrio ecologico del pianeta. L’ideologia neoliberista mutuata dagli Usa, fondata sui presunti benefici che deriverebbero dallo smantellamento dello stato sociale va dunque contrastata ricreando un sistema europeo di protezione sociale e di sicurezza articolato ai livelli continentale, nazionale, regionale e locale. Un sistema federale nel quale l’Unione europea (Ue), si assuma le proprie responsabilità in ordine alla promozione, al coordinamento e all’attuazione delle politiche perequative necessarie a realizzare un nuovo “modello sociale europeo” (Mse).

È necessario rilevare che seguire la pura logica del mercato autoregolato ha indotto in alcuni casi a confondere la modernizzazione con la privatizzazione e a ignorare che ci sono servizi che, se privatizzati, non permettono di rispettare i requisiti minimi di sicurezza e di utilità. Le distorsioni ambientali e sociali di questo modello di sviluppo, realizzatosi senza controllo democratico, si sono improvvisamente aggravate sfociando in una crisi globale finanziaria ed economica catastrofica che, senza drastiche misure correttive, rischia di colpire solo le fasce più deboli della popolazione.
Il costo economico, ambientale e sociale derivante dallo svuotamento delle regole predisposte al controllo democratico dello sviluppo è stato rilevante. La crisi del welfare che ne è derivata, rischia di diventare una minaccia per la stessa democrazia in quanto la crescita delle disuguaglianze determina un aumento della povertà e dell’esclusione e, di conseguenza, della conflittualità. Mette a rischio la coesione sociale. Sarebbe molto grave se agli inizi della ripresa venisse riproposto lo stesso sistema che ci ha condotto alla crisi economico-finanziaria mondiale.
È ormai riconosciuta da molti la necessità di un deciso cambiamento di rotta verso un modello di sviluppo mondiale sorretto e guidato da un nuovo assetto multipolare del mondo, un assetto più democratico e flessibile che permetta integrazione sociale e responsabilità collettiva.

L’Ue può e deve assumere in questo cambiamento un ruolo cruciale. Deve contribuire a costruire un nuovo equilibrio mondiale fondato sulla cooperazione di tutte le altre regioni del mondo e teso alla realizzazione congiunta di un modello di sviluppo capace di ristabilire il controllo democratico sulle scelte economiche, di sanare gli attuali squilibri sociali e ambientali e di mostrare che è possibile coniugare sviluppo economico e coesione sociale, mercato e protezione sociale, valorizzazione della persona e sostegno ai bisogni collettivi.

Continua nel libro Europa 2.0

GRAZIA BORGNA, direttrice del Centro Einstein di Studi Internazionali di Torino. Dirigente del Movimento Federalista Europeo. Ha promosso le Campagne per l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo, per l’euro e per la Costituzione federale europea. Ha curato il volume Il modello sociale nella costituzione europea (Il Mulino, 2004). Ha contribuito con un saggio al volume Il ruolo dell’Europa nel mondo (Alpina, 2007). Sito: www.centroeinstein.it.

Costruire dal basso lo spazio pubblico europeo

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

Costruire dal basso lo spazio pubblico europeo

di Raffaella Bolini*

Nel 1910 le suffragette inglesi venivano arrestate durante le manifestazioni per il voto alle donne davanti ai cancelli della House of Commons. Ancora negli anni Sessanta sopravvivevano i domini coloniali europei in Africa. I regimi in Europa orientale hanno resistito fino al 1989, e l’apartheid un po’ di più. Nessuno può negare che nell’ultimo secolo la democrazia abbia fatto in tutto il mondo grandi passi avanti. C’è più quantità di democrazia, ma a ciò corrisponde nell’epoca odierna un abbassamento della sua qualità. C’è meno partecipazione al voto, meno fiducia nella classe politica. L’economia mangia la politica, la privatizzazione erode il pubblico, la globalizzazione erode lo stato e la democrazia delle istituzioni internazionali non è ancora stata inventata. Marylin Taylor, dell’Università del West England, la chiama “contraddizione democratica”.

La vittoria dei no ai referendum sul Trattato Costituzionale ha dato un potente contributo ad aprire la riflessione. È vero, come ha scritto Giuseppe Allegri, che lo strumento referendario in sé – a conclusione di un processo difficilmente rapportabile a una dimensione autenticamente
pubblica e democratica – certo non era lo strumento più idoneo a manifestare la volontà delle cittadinanze. Le società europee sono complesse, frammentate e pluralistiche, mentre la scelta referendaria presuppone la riduzione brutale delle scelte, dell’articolazione del dibattito e delle differenze. In ogni caso, la delegittimazione del processo costituente è stata forte e chiara e le istituzioni comunitarie hanno dovuto avvertire volenti o nolenti la distanza che le separa dai cittadini in carne ed ossa. Si è materializzato il timore delle popolazioni per un livello istituzionale
ritenuto meno controllabile delle pur indebolite democrazie nazionali, oscuro nell’incidenza sulla vita quotidiana, rappresentato nei fatti da imposizioni dall’alto, subalterno ai poteri forti della globalizzazione e complice nella distruzione delle garanzie sociali conquistate a livello nazionale.

A seguito dello choc referendario, mentre i governi trovavano le scorciatoie per non far arenare il percorso del Trattato, in alcuni settori della stessa Commissione europea si è aperta una riflessione inedita. Ha interrogato in modo critico anche organizzazioni della società civile che giocano la partita dentro le istituzioni, nei ristretti spazi consentiti e concessi. Si è dovuto ammettere che per troppo tempo la relazione con i cittadini è stata intesa come puro e semplice impegno per l’informazione sulla vita delle istituzioni europee. E che tante esperienze non governative si sono prestate per anni a questo equivoco, intorno al quale sono state investite risorse e si sono costruiti meccanismi di cooptazione. Ma tanto più si allargano gli ambiti di competenza dell’Unione europea, tanto più ci si avvia verso l’unione politica e non solo monetaria ed economica, tanto più appare evidente che il deficit democratico è cosa seria, e ha a che fare con la base costituente dell’Unione.

Continua nel libro.

* RAFFAELLA BOLINI, Responsabile internazionale dell’Arci. È attivista dagli anni Ottanta nei movimenti per la pace, per la solidarietà internazionale, contro il razzismo, per la giustizia globale. Impegnata nell’organizzazione del Forum Sociale Europeo e Mondiale. Vicepresidente del Forum Civico Europeo. Siti: www. arci.it; www.forumsocialmundial.org.br; www.fse-esf.org; www.civic-forum.fr.

mercoledì 19 maggio 2010

L’alleanza tra il Parlamento europeo e i movimenti, per l’avanzamento del processo di integrazione dell'Europa

L’alleanza tra il Parlamento europeo e i movimenti, per l’avanzamento del processo di integrazione dell'Europa

di Vittorio Agnoletto*

Le mie opinioni sul presente e sul futuro dell’Ue sono frutto di esperienze fra loro molto differenti maturate negli ultimi vent’anni, prima nell’associazionismo, poi tra i movimenti sociali, infine nelle aule del Parlamento europeo.

Dall’associazionismo...

Negli anni Novanta come presidente della Lila (Lega italiana per la lotta contro l’Aids) ho coordinato vari progetti europei di ricerca ai quali partecipavano le principali associazioni di lotta all’Aids e molte realtà impegnate nella difesa dei diritti civili dell’allora Unione a quindici. Ho verificato sul campo l’attività di gruppi che si occupavano di salute, lotta alle droghe, difesa dei diritti degli omosessuali, dei migranti, di chi si prostituisce; ho scoperto similitudini e linguaggi comuni ma anche pratiche differenti e qualche pregiudizio.

Ho passato giornate intere a convincere associazioni nordeuropee che la lotta all’Aids non poteva essere un’esclusiva dei gay; ho scoperto con stupore il proibizionismo della Svezia sulle droghe; ho visto increduli i miei interlocutori quando raccontavamo le ingerenze della Chiesa nelle politiche di prevenzione...

... al movimento

Dal luglio genovese del 2001, attraverso l’esperienza dei Forum Sociali Europei, figli del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, fino al 2004, ho vissuto totalmente immerso nell’esperienza del movimento antiliberista/altermondialista. Sono stati anni trascorsi nel tentativo di costruire reti e campagne europee attorno a conflitti sociali e vertenze: dalla lotta contro le basi militari a quella in difesa dei beni comuni, dalla richiesta di politiche di accoglienza verso i migranti alla campagna in favore della Tobin Tax.

Cresceva la consapevolezza che ogni nostra battaglia aveva necessariamente una dimensione sovranazionale e continentale. Tale consapevolezza coesisteva con le conseguenze della dura opposizione che tutta la sinistra europea (non mi riferisco ovviamente ai partiti socialisti/socialdemocratici) aveva esercitato nei primi anni Novanta contro il trattato di Maastricht. Il trattato aveva rilanciato la costruzione europea fondandola sul predominio della finanza e sull'autonomia del potere economico dalla politica.

Uno dei lasciti di quella battaglia fu, per un periodo non breve, un'indifferenza generalizzata verso le istituzioni europee viste come esecutrici del dominio capitalista o come enti inutili o, al massimo, come tribune dalle quali rilanciare le lotte dei movimenti. Non c’è dubbio che la complicata architettura istituzionale dell’Ue e i poteri limitati del Parlamento europeo alimentassero tale disinteresse. Ma la crescita delle tematiche antiliberiste portò ben presto i movimenti a fare i conti con le politiche comunitarie: dalla PAC, la politica agricola comune, al commercio, dalla difesa alle direttive sul mercato interno. I movimenti furono costretti a recuperare saperi e conoscenze sulla dimensione istituzionale europea.

Continua nel libro Europa 2.0.

* VITTORIO AGNOLETTO, nel 1992 fonda la Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids. Nel 2001 è portavoce della delegazione italiana al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre e del Genoa Social Forum. Dal 2004 al 2009 è eurodeputato nel gruppo della Sinistra Europea. Ha pubblicato La società dell’Aids e Prima persone. Le nostre ragioni contro questa globalizzazione. Siti: www.vittorioagnoletto.it; www.lila.it, www.forumsocialmundial.org.br.

martedì 18 maggio 2010

L’Europa ed il commercio internazionale

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

L’Europa ed il commercio internazionale

di Alberto Zoratti e Monica Di Sisto*

“La forza economica in casa è essenziale per una forte voce europea nel mondo. Il commercio è indispensabile per creare e sostenere questa forza. Un'economia globale in mutamento ha bisogno di una nuova politica commerciale. Un mercato aperto non è solamente riduzione delle tariffe, si tratta di un mercato in cui le imprese europee ricevono un trattamento equo, con libertà di concorrenza e protezione giuridica. La politica europea ha bisogno di essere chiara: rifiuto del protezionismo in casa, attivismo per l’apertura dei mercati all'estero”. Era il 4 ottobre 2006 e Peter Mandelson, allora Commissario al commercio per l’intera Unione, così commentava la nuova cornice in cui si sarebbe inserita l’Europa del terzo millennio.

“Global Europe: competing in the world” non sarebbe stata solamente una buona intenzione, ma avrebbe significato un deciso cambiamento di rotta della politica commerciale globale della vecchia Europa, a poco meno di un anno dalla “Ministeriale” dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) di Hong Kong (dicembre 2005). La filosofia di fondo della direzione impressa da Mandelson, coerente con la linea dettata dal commissario precedente Pascal Lamy (oggi Direttore generale della Wto), è più che mai semplice quanto diretta: per poter rafforzare i fondamentali dell’economia interna europea, una delle ricette sostanziali è trasformarsi in un competitore globale capace di promuovere e difendere attivamente gli interessi delle imprese e delle multinazionali europee in giro per il mondo.

Un obiettivo che non può essere raggiunto facilmente con gli strumenti già disponibili, ma che richiede un aggiornamento nelle strategie e nell’armamentario a disposizione. La Wto, e così l’ambito multilaterale, hanno dimostrato limiti apparentemente insormontabili: dal 1999, anno in cui il Millennium Round, il negoziato del millennio sulle liberalizzazioni, fallisce ancora prima di iniziare nella fredda Seattle, i passi fatti nella direzione di una progressiva liberalizzazione dei mercati globali sono pochi ed instabili.

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* ALBERTO ZORATTI, biologo e giornalista freelance. Fondatore di “Fair”. Presidente di Fairwatch. Già vicepresidente dell’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale. Ha promosso le campagne “MobiliTebio” e “Questo Mondo Non è in Vendita”. Portavoce di Rete Lilliput nel Genova Social Forum al G8 del 2001. Scrive su “Altreconomia” e “Carta”. Tra i suoi libri: Fermiamo Mr Burns (Arianna, 2008) e Il voto nel portafoglio (Il Margine, 2009). Siti: www.faircoop.it.

** MONICA DI SISTO, giornalista. Collabora con l’Agenzia Asca, con quotidiani e periodici (Carta, Altreconomia, Rocca). Vicepresidente di Fair e responsabile per le campagne sull’Organizzazione Mondiale del Commercio e sull’economia internazionale. Tra i fondatori dell’Associazione Fairwatch. Tra le sue pubblicazioni: WTO (Emi, 2005) e Il voto nel portafoglio. Cambiare consumo e risparmio per cambiare l’economia (Il Margine, 2009). Sito: www.faircoop.it.

L’integrazione dei migranti in Europa

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

L’integrazione dei migranti in Europa

di Pietro Soldini*

Il trattamento riservato agli stranieri svela i caratteri più profondi di un sistema politico e di welfare: l’immigrazione è la cartina di tornasole per comprendere il livello di democrazia di un paese. L’Europa, sempre più caratterizzata da una crescente “disuguaglianza razziale” – esito di una differente allocazione delle risorse e delle opportunità tra nazionali e stranieri – rischia di pregiudicare il suo grado di civiltà faticosamente raggiunto.

Premessa


La presente nota si articolerà nel modo seguente: si passeranno in
breve rassegna alcuni aspetti del percorso di integrazione che il migrante, giunto in Europa, deve intraprendere per raggiungere una sufficiente integrazione nel paese ospitante. In primo luogo si illustrerà, se esistente, la disciplina comunitaria (trattati, direttive, sentenze delle Corti di Giustizia); a seguire verrà presentata la situazione concreta del migrante in alcuni paesi europei, significativi ed analizzati da vari istituti di ricerca. Questa metodologia è quasi obbligata dal momento che il diritto comunitario si limita, quasi sempre, a dare indicazioni non cogenti, riservando ai singoli Stati membri la legislazione più appropriata alle proprie necessità contingenti.
Anche in una materia relativamente più abbordabile – la disciplina previdenziale – l’Unione europea ha raggiunto soltanto un coordinamento dei vari sistemi nazionali, perché l’armonizzazione integrale non è ancora a portata di mano. Ultimamente l’unica intesa raggiunta da tutti gli Stati membri ed efficacemente operante ha come oggetto la difesa delle frontiere esterne, in una visione ossessivamente securitaria, sottovalutando e trascurando le politiche di integrazione, che invece sono il mezzo migliore e più lungimirante per dare tranquillità e sicurezza di vita sia ai nazionali che ai migranti.

Continua nel libro Europa 2.0

* PIETRO SOLDINI, responsabile dell’Ufficio nazionale delle politiche per l’immigrazione della Cgil. Ha ricoperto l’incarico di Presidente Nazionale della Federazione Italiana del Tempo Libero. Tra le campagne promosse dalla Cgil “Stesso sangue, stessi diritti” contro il razzismo e “Diritti senza confini”. Siti: www.cgil.it; www.dirittisenzaconfini.it.

La Carta dei principi dell’altra Europa

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

La Carta dei principi dell’altra Europa

di Franco Russo*

L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009 ha chiuso un periodo quasi decennale di lotta costituente a livello europeo, aperto formalmente dai governi con la Dichiarazione sul futuro dell’Unione europea – emessa dal Consiglio europeo, riunitosi a Laeken il 14 e il 15 dicembre 2001 –, durante il quale si sono confrontate due visioni dell’Unione: quella delle élites di governo, e dei poteri economico-finanziari, e quella dei movimenti sociali per l’altra Europa. Questa fase si conclude, purtroppo, con una nuova vittoria dei governi che continuano nella costruzione dell’Unione europea dall’alto, seguendo il vecchio e sperimentato metodo funzionalistico che pone al centro il mercato e la moneta. Un ciclo è giunto al termine, senza che l’Ue abbia compiuto una sua rifondazione democratica.
Il Social Forum Europeo, nella sua prima edizione del 2002, fu l’occasione per lanciare l’europeismo di sinistra, assunto poi come punto di riferimento dall’Assemblea di Firenze del 12 e 13 novembre 2005, che rappresentò il momento più dinamico nell’elaborazione di una Carta dei
principi dell’altra Europa. In questa Assemblea fiorentina si scrisse in forma collettiva il primo draft della Carta, guidati dalla risoluzione, adottata nell’Assemblea preparatoria europea di Istanbul del settembre 2005, secondo cui la Carta non doveva essere “la semplice ripetizione delle richieste dei nostri movimenti e dei loro documenti politici”, ma tendere ad “approfondire la comprensione, la sistematizzazione e la scrittura del nucleo comune dei nostri valori e sentimenti, condivisi da milioni di persone [...] valori e sentimenti che hanno guidato i movimenti sociali da
Seattle1999 e Genova 2001”.
Il movimento no global non ha commesso gli errori della sinistra storica, che – con l’eccezione di limitati settori dell’azionismo e del socialismo – dinanzi alla sfida europeista di Schuman, Adenauer e De Gasperi si rinchiuse nei confini dello Stato nazionale.

I Social Forum europei – da Firenze a Malmoe – rimangono ancora l’unico spazio pubblico sovranazionale, dove democraticamente si è cominciato a costruire mediante pratiche discorsive il “popolo europeo”, senza cadere in visioni organicistiche o naturalistiche del demos. Il movimento no global ha criticato metodi e contenuti del “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” accettando la sfida costituente, facendone anzi un terreno di lotta privilegiato per contrastare e rovesciare le politiche liberiste. Si è fatta propria, sia pure implicitamente, l’indicazione di Bruce Ackerman, dato che si è colto il periodo storico apertosi a Laeken non come una fase di politica normale ma come una fase costituente, e si è cercato di coinvolgere diffusamente le/i cittadine/i con le loro organizzazioni e associazioni nell’elaborazione e all’affermazione di principi costituzionali. Se la questione della Costituzione è quella dell’istituzione di un ordinamento giuridico in cui si affermino i diritti universali delle persone, e che fa discendere da ciò l’organizzazione dei “poteri”, si può sostenere allora che i movimenti hanno condotto una vera e propria “lotta per la costituzione europea”.

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FRANCO RUSSO, fa parte di Carta per l’altra Europa, rete del Social Forum Europeo. Esponente
del Forum ambientalista. Partecipa al centro di ricerche Transform e alla Rete romana contro la crisi. Già deputato italiano alla Commissione Affari Costituzionali. Ha partecipato alla fondazione del Centro antimperialista Che Guevara e di Democrazia Proletaria. Ha animato le fasi iniziali dell’Associazione Antigone e organizzato il Centro diritti/lavoro. Sito: www.europe4all.org.

mercoledì 12 maggio 2010

Per un’Europa aperta a tutti i residenti

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

Per un’Europa aperta a tutti i residenti


di Paul Oriol*

I principi dell’Unione europea (Ue) sono chiari. Nel suo preambolo la Carta dei diritti fondamentali afferma: “L’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto. Essa pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. E, infatti, la Carta enumera una serie di diritti che riconosce a tutte le persone che vivono sul territorio dell’Unione.

Purtroppo, legando la cittadinanza dell’Unione alla nazionalità di uno degli Stati membri, la Carta esclude oltre venti milioni di persone – di non persone? – dalla cittadinanza comunitaria. Riprendendo la definizione del Trattato di Maastricht si può dividere la popolazione che vive su uno stesso territorio in “caste” con diritti differenti:

– i cittadini “nazionali” che vivono sul loro territorio nazionale (tedeschi in Germania, italiani in Italia, ecc.) hanno il diritto di voto e di eleggibilità per tutte le elezioni;

– i cittadini dell’Unione che vivono in un paese membro diverso dal loro hanno il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni municipali ed europee alle stesse condizioni (o quasi) dei cittadini nazionali;

– i cittadini di Stati terzi hanno o non hanno il diritto di voto alle elezioni municipali o locali, con o senza eleggibilità, in funzione della legislazione propria dello Stato di residenza;

– i clandestini, infine, sono esclusi da tutti questi diritti in tutti gli Stati membri.

L’Ue riconosce alcuni diritti estesi a tutte le persone che hanno la residenza in uno degli Stati dell’Unione, compresi i diritti politici, e specificamente tramite la Carta (art.12), il diritto di riunione e di associazione: “ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di
associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico, il che implica il diritto di ogni individuo di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi”.

Ogni persona ha il diritto di associazione politica a tutti i livelli. Questo diritto non é riservato al solo cittadino dell’Unione ma è aperto ad ogni persona, anche se questa non ha la cittadinanza dell’Unione per via della sua nazionalità: può essere membro di un partito politico ad ogni livello, addirittura segretario o presidente, ma non può votare a nessuna elezione politica!

Continua nel libro Europa 2.0

PAUL ORIOL, militante di lunga data per le battaglie riguardanti l’uguaglianza dei diritti e la cittadinanza. Ha partecipato alla Lettre de la citoyenneté, alla rivista “Migrations-société” e alla commissione immigrazione di Alternatifs e presidente dell’Association pour une citoyenneté européenne de résidence. Animatore della campagna “Per una cittadinanza europea di residenza”. Ha pubblicato: Residenti stranieri, cittadini!, Gli immigrati: meteci o cittadini?, Gli immigrati davanti alle urne. Siti: www.lettredelacitoyennete.org; pauloriol.overblog.fr.

lunedì 10 maggio 2010

L'Europa e diritti degli altri

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

L’Europa e i diritti degli altri

di Deborah Lucchetti*

“Mi sento così male e stanca dopo un giorno di lavoro che non vorrei più lavorare il giorno successivo. Ma la fame non mi permette di pensare al malessere, il pensiero di vivere con la pancia vuota annulla tutti gli altri pensieri. Noi lavoriamo per salvare noi stessi dalla fame”. A parlare è una donna lavoratrice di una fabbrica tessile del Bangladesh che fornisce Wal-Mart e Carrefour, una donna fra i tanti milioni di invisibili che consentono ogni giorno alla macchina produttiva globale di non fermarsi; quello che produce insieme a cento milioni di lavoratori asiatici impiegati del settore tessile, serve direttamente i nostri scaffali e probabilmente non lo potrà mai indossare; produce per il mercato europeo, per le imprese europee, per i consumatori europei.

In questa frase che è testimonianza non di un triste destino individuale ma di una storia sociale di classe che riguarda milioni di donne, uomini e minori nel mondo, si racchiude tutta la pesante contraddizione che attanaglia il nostro Vecchio continente, proteso e conteso tra una visione di un’Europa democratica basata sui diritti umani fondamentali universali e una invece sbilanciata verso un’Europa di mercato piegata agli interessi delle grandi imprese.
Secondo una recente ricerca condotta negli Stati Uniti su 2.508 imprese, una minoranza di imprese pari al 28 per cento (di cui il 45 per cento appartenente al mondo delle grandi) ha adottato politiche per i diritti umani e del lavoro mentre solo il 15 per cento ha prodotto un vero e proprio codice di condotta per i propri fornitori. In Europa il dato aumenta visto che il 43 per cento delle imprese hanno politiche in materia di responsabilità sociale contro il 23 per cento degli Stati Uniti; ma le percentuali scendono sotto il 6 per cento quando si tratta di valutare i contenuti e l’efficacia di tali politiche, per esempio attraverso l’adozione delle Convenzioni OIL e l’utilizzo di sistemi di monitoraggio e concreta applicazione degli standard lungo l’intera filiera produttiva. Osservando meglio, ci si rende conto che la prevalenza delle imprese che adottano politiche di protezione dei diritti umani e del lavoro sono quelle operanti in settori molto esposti agli abusi o molto presenti nei mercati di largo consumo; segno di quali meccanismi spingono le multinazionali ad occuparsi dell’impatto sui diritti umani della loro produzione.

Dieci anni di politiche liberiste applicate al commercio internazionale hanno favorito una ristrutturazione dei mercati e delle imprese che ha portato ad una nuova geografia globale. L’abbattimento progressivo delle barriere tariffarie e non-tariffarie promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio ha fertilizzato il terreno per la massima circolazione
delle merci e dei capitali su un pianeta piatto, concepito come una grande piattaforma infrastrutturale finalizzata ad accaparrare risorse, trasformarle e distribuirle secondo logiche di crescente concentrazione e profitto.

Continua nel libro Europa 2.0.

DEBORAH LUCCHETTI, esperta di lavoro e diritti umani, globalizzazione e commercio equo. Presidente di Fair. Coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, coalizione internazionale di oltre 250 organizzazioni che promuove i diritti del lavoro nell’industria tessile globale. Partecipa alla Rete Lilliput e prepara il controvertice del G8 del 2001. Ha pubblicato I vestiti nuovi del consumatore (Altreconomia, 2010). Siti: www.abitipuliti.org.

domenica 9 maggio 2010

Ecologia, energie, Europa della sostenibilità

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

Ecologia, energie, Europa della sostenibilità


di Maurizio Gubbiotti*

In pochi anni il mondo è cambiato: fine dell’era industriale, fine del dopo-guerra e della guerra fredda, diffusione dell’informatizzazione, irruzione di Internet, fine dei comunismi, crisi dei socialismi, rinascita dei nazionalismi, conflitti etnici e religiosi, migrazioni di massa, nuove epidemie, passioni ecologiche, nascita delle organizzazioni non-governative, rullo compressore della globalizzazione neo-liberista. Innanzitutto i cambiamenti riguardano le conseguenze della globalizzazione a partire dalla preminenza che hanno i poteri economici rispetto alla politica; ciò
comporta un’influenza smisurata sulla vita degli Stati, di istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che definiscono le politiche economiche e commerciali di gran parte degli Stati della terra, qualunque sia l’orientamento dei loro governanti. In diversi settori questa evoluzione ha aggravato i più diversi tipi di diseguaglianze. I ricchi, sia gli Stati che gli individui, sono diventati più ricchi, e i poveri sempre più poveri. La globalizzazione neoliberista che costituisce la caratteristica principale del mondo contemporaneo ha portato con sé una perdita di autonomia dei governi, l’onnipotenza dei mercati finanziari, l’attivismo delle mega-imprese, lo sviluppo di reti mafiose, la proliferazione dei paradisi fiscali,
l’indebitamento dei Paesi del Sud, il saccheggio dell’ambiente.

Ed è a questo che va riferito un quadro mondiale dove un miliardo e 300 milioni di persone oggi vivono con meno di un dollaro al giorno, 2 miliardi e 400 milioni di persone vivono senza accesso ai servizi sanitari, un miliardo e 500 milioni di persone vivono senza accesso all’acqua potabile sana. Secondo dati forniti dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite, risulta che intorno al 70 per cento dei circa cinque miliardi di ettari utilizzati in agricoltura in aree semi aride o in prossimità di deserti è già degradato e in gran parte soggetto a desertificazione. I continenti perdono, ogni cinque anni, 24 miliardi di tonnellate di superficie fertile ed il fenomeno non accenna a diminuire, anzi si aggrava. È un circolo vizioso: la povertà favorisce il degrado, il degrado produce povertà e quando anche il cambiamento del clima da conseguenza diviene fattore devastante, allora queste comunità sono costrette a cercare altrove delle terre in cui vivere. Ogni anno, come spiegano le Nazioni Unite, sei milioni di persone diventano profughi ambientali. In questo quadro diventa indispensabile l’apertura di una nuova stagione di cooperazione internazionale; questa deve essere capace di stabilire contatti e creare occasioni di incontro, per aprire canali di comunicazione e di ricerca, oltre a costruire reti di alleanze che valorizzino i saperi e le esperienze di tutti gli attori coinvolti, moltiplicando l’impatto dei processi di eco-sviluppo locali. Vanno ricercate alternative di sviluppo sostenibile che valorizzino le identità, creino benessere diffuso e durevole, garantiscano la tutela dei valori ambientali e dei sistemi di supporto alla vita. Tali scelte richiedono una maggiore integrazione delle politiche di cooperazione con quelle settoriali a livello nazionale, europeo e mondiale, come, ad esempio, le politiche agricole, energetiche e commerciali nonché le direttrici dello sviluppo economico. L’azione dei popoli dovrà essere capace di costruire un altro modello energetico equo e democratico, non più alimentato dai combustibili fossili e dal nucleare, ma basato sul risparmio dell’energia e sull’uso distribuito e sostenibile delle risorse rinnovabili quali sole, vento, biomasse, geotermia, mini idroelettrico e maree.

Continua nel libro Europa 2.0

MAURIZIO GUBBIOTTI, giornalista ambientale. Coordinatore della segreteria nazionale di Legambiente. Ne dirige il dipartimento internazionale partecipando ai Social Forum europei e mondiali e a conferenze ambientali internazionali. Ha collaborato con “Dire Ambiente”, “Il Salvagente”, “La Nuova Ecologia”, “Sapere”, “Donna Moderna”, “il Manifesto”, “Repubblica” e “l’Unità”. Tra le pubblicazioni recenti Rapporto dei Diritti Globali
(Ediesse, 2009). Sito: www.legambiente.it.

sabato 8 maggio 2010

Politica economica europea e basic income

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

Politica economica europea e basic income


di Andrea Fumagalli*

Introduzione

La crisi economica finanziaria di questi anni ha acuito i malesseri dell’Europa e ha evidenziato alcune criticità nel processo di unificazione politica ed economica continentale. Tali malesseri sono riscontrabili a due livelli d’analisi, che è meglio per il momento tenere distinti anche se sono strettamente interrelati. Il primo ha a che fare con gli aspetti sociali ed economici, relativamente al modello di organizzazione della produzione e del lavoro e ai meccanismi oggi esistenti (o non esistenti) che regolano la sfera distributiva. Il secondo ha a che fare con gli aspetti di policy, strettamente dipendenti dai vincoli e dai gradi di libertà politica oggi esistenti all’interno della dicotomia: spazio pubblico nazionale, spazio pubblico europeo.

Nel presente intervento si cercherà di sviluppare questi due aspetti, alla luce delle trasformazioni della politica sociale e dell’idea del welfare state con il superamento del paradigma di produzione fordista-industriale.

In particolare, si cercherà di mettere a fuoco le contraddizioni oggi esistenti tra enunciazioni di politica sociale in parte innovative e la carenza di strumenti e di spazi dell’agire politico europeo che le renda possibili.

Una nuova idea di welfare per l’Europa

Le trasformazioni del mercato del lavoro negli ultimi due decenni hanno reso impellente una ridefinizione complessiva e una riarticolazione delle politiche di welfare. Non sempre tale argomento ha suscitato l’adeguato interesse del pensiero economico di sinistra e alternativo. Nel
dibattito socio economico attuale, due sono le concezioni di welfare che più di altre attirano l’attenzione degli studiosi e della politica: il workfare e, in alternativa, il welfare pubblico, di derivazione keynesiana. Con il termine workfare si intende un sistema di welfare non universalistico di tipo contributivo (cioè ognuno riceve in funzione di quanto da, come già avviene oggi con la riforma previdenziale), strutturato sull’idea di fornire un aiuto di ultima istanza laddove esistano condizioni esistenziali che non consentono di poter lavorare e quindi di accedere a quei diritti che solo la prestazione lavorativa è in grado di garantire. L’idea di workfare è inoltre complementare ai progetti di privatizzazione di buona parte del welfare pubblico, a partire dalla sanità, dall’istruzione e dalla previdenza.

Essi trovano oggi fondamento nel cosiddetto “principio di sussidiarietà”, secondo il quale, nelle materie che non sono di propria competenza esclusiva, possono intervenire livelli di governo superiore (es. lo Stato) soltanto e nella misura in cui si ritiene che i livelli di governo inferiore (es. le Regioni) non siano in grado di conseguire gli obiettivi prefissati in maniera soddisfacente.

Tradotto in pratica, significa che l’intervento pubblico può avere una sua ragion d’essere solo laddove il privato non è in grado o non trova conveniente intervenire. Mentre, d’altro lato, il workfare ha come target immediato e parziale solo chi si trova al di fuori del mercato del lavoro, come i disoccupati e i pensionati al minimo sociale, e si basa sulla netta distinzione tra politiche sociali e politiche del lavoro. Un concetto dunque prettamente fordista con l’aggiunta di una cornice neoliberista, sul modello anglosassone: incentivi al lavoro e stato sociale minimo.

A questa idea di workfare, si vuole contrapporre – a sinistra – il ritorno del welfare pubblico o keynesiano. Lo Stato dovrebbe farsi carico di un intervento di stampo universalistico, in grado di garantire a tutti i cittadini (che non sempre coincidono con i residenti) alcuni servizi sociali di base, quali la salute, l’istruzione e la previdenza lungo tutto l’arco dell’esistenza (dalla culla alla tomba, secondo la famosa definizione del rapporto Beveridge del secondo dopoguerra) in cambio della partecipazione al lavoro e alla definizione di un patto sociale tra i fattori della produzione. Sul fatto che alcuni servizi sociali primari (quali ad esempio istruzione e sanità) debbano continuare a rimanere pubblici non vi è alcun dubbio. Tuttavia, con la crisi del modello fordista, vengono meno alcune precondizioni perché tale modello di welfare possa svolgere il suo compito in modo equo all’interno di un quadro di giustizia sociale.

Continua nel libro Europa 2.0.

* ANDREA FUMAGALLI, insegna Macroeconomia ed Economia Politica all’Università di Pavia e Modelli economici alternativi all’Università Bocconi di Milano. Tra le pubblicazioni: Bioeconomia e capitalismo cognitivo (Carocci, 2007), con Sandro Mezzadra da curato Crisi dell’Economia globale (ombre corte, 2009). Vice presidente dell’associazione Bin-Italia (Basic Income Network). Tra gli organizzatori della MayDay di Milano. Attivo nella rete UniNomade. Siti: www.euromayday.org; www.bin-italia.org.

venerdì 7 maggio 2010

Internet, l'Europa e i diritti digitali

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

Dal capitolo:
Internet, l'Europa e i diritti digitali
di Arturo Di Corinto*


Che la rivoluzione digitale abbia cambiato il modo in cui la gente pensa, lavora, guadagna o si diverte è ormai una consapevolezza comune.

La digitalizzazione delle reti e dei contenuti ha creato nuove industrie, aperto nuovi mercati, favorito un nuovo rapporto fra governanti e governati e determinato nuove modalità di organizzazione sociale e divisione del lavoro. Cambiamenti che vanno oggi sotto il nome di Società dell’Informazione, termine passe-partout usato per indicare il ruolo sempre più rilevante che l’informazione e la comunicazione assumono negli scenari sociali, economici e politici globali. Tuttavia, queste trasformazioni che hanno mutato radicalmente il mondo della ricerca, dell’istruzione, del commercio, dei media, dell’industria culturale, non hanno creato solo nuove ricchezze, ma anche grandi povertà, contribuendo a ridisegnare gli equilibri geopolitici mondiali.
All'inseguimento del framework delle autostrade dell’informazione di clintoniana memoria, l’Europa ha provato ad assumere un ruolo guida in questo processo attraverso la cosiddetta “Strategia di Lisbona”. Eppure, nonostante gli annunci roboanti, tale strategia, che ambiva a trasformare l’Europa nella più grande economia digitale del mondo, sembra avere miseramente fallito per l’incapacità di mettere a sistema le potenzialità dei suoi Stati membri, caratterizzati da una ricca e attiva società civile, da un tessuto imprenditoriale dinamico di piccole e medie imprese, e un quadro regolatorio orientato alla concorrenza dei mercati, ma anche alla tolleranza, alla diversità, alla libertà.

Sono stati molti gli eventi che negli anni hanno impedito che l’Europa diventasse il luogo vagheggiato a Lisbona. Le gelosie degli Stati nazionali, il pressing dei lobbisti, il comportamento anticompetitivo di molte aziende, l’inclinazione di molti paesi a violare i diritti umani dei propri cittadini, hanno impedito di cogliere i frutti dell’innovazione socialmente prodotta. Impedendo la corretta osmosi fra ricerca di base e ricerca applicata, le sinergie fra centri di ricerca, pubblici e privati, e i reparti di ricerca e sviluppo delle grandi aziende e fra questi e gli enti locali, l’Europa anziché avanzare, retrocede. In aggiunta a questo, l'incapacità di parlare ai territori, istituzioni con una debole struttura finanziaria e di investimento, le difficoltà di accesso al credito posta dalle banche completano il quadro delle occasioni mancate per sviluppare una sana economia informazionale. Tutto il contrario di quello che accadeva in luoghi come la California che non a caso, pur essendo uno “staterello”, grazie alla capacità di investire in ricerca, tecnologia e innovazione, è la nona economia del mondo.

Continua nel libro.

* ARTURO DI CORINTO. “Il Sole24ore”, “PeaceReporter”, “Punto-Informatico”. Autore di libri e saggi collettanei sull’open source, il diritto d’autore e l’innovazione tecnologica. È autore di Revolution OS II, il primo film italiano sull’open source. Presidente della Free Hardware Foundation Rome. Psicologo cognitivo, ha insegnato e fatto ricerca all’Università di Stanford e a La Sapienza di Roma. Ha partecipato a molte campagne per la promozione e la tutela delle libertà digitali a livello europeo. Siti: www.frontieredigitali.net; fhf.it; www.dicorinto.it.

domenica 2 maggio 2010

Il debito dell’Europa: risarcire l’Africa

Anticipazione dal volume collettivo "Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo", Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini (a cura di), ombre corte, Verona, maggio 2010.

Dal capitolo:
Il debito dell’Europa: risarcire l’Africa

di Raffaella Chiodo Karpinsky*

L’isola di Gorée è parte severa e incancellabile della nostra storia. Per noi europei, dalla parte del torto. Non c’è scampo. C’è solo debito. Il nostro. Eppure, a cinquecento anni da quando a Gorée venivano concentrati donne e uomini destinati alla deportazione verso l’Occidente –
prima la selezione, poi il viaggio di sola andata verso la schiavitù –, non c’è alcun riconoscimento e continua lo sfruttamento. Lo sfruttamento di allora e dei secoli a venire, attraverso il quale abbiamo costruito la ricchezza e il progresso per questa parte di mondo. Per l’altra parte, di fatto,
non resta che la condanna a processi di impoverimento. Prima la colonizzazione con le monocolture, poi l’espropriazione delle risorse naturali, dal grano al carbone passando per i diamanti e l’oro ed infine gli aggiustamenti strutturali imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Visti gli esiti nefasti che queste organizzazioni hanno prodotto, i loro prestiti sembra non abbiano mai avuto l’intenzione di essere tali, anche se – sotto il segno della crisi petrolifera del ’73 e delle buone intenzioni di quello che avrebbero dovuto rappresentare
gli anni Ottanta, il potenziale “decennio dello sviluppo” –, i loro programmi avrebbero dovuto rendere possibile la ricostruzione delle economie devastate lasciate dagli ex colonizzatori.

A crederci davvero e ad investire risorse realmente consistenti è stata una generazione di importanti leader europei. Personalità della sinistra europea come Olof Palme, Willy Brandt, Altiero Spinelli o Enrico Berlinguer. Una tipologia di politici con una visione responsabile dell’Europa e degli organismi internazionali fondamentali, come le Nazioni Unite, di cui oggi si sente una profonda mancanza. Ma il re è nudo e da tempo. Oggi nessuno lo può più negare che a vincere su quelle visioni solidali ha prevalso ben altro approccio. L’approccio di chi ha inventato il meccanismo perverso del debito estero dei paesi impoveriti, che alla fine dei conti non è stato altro se non un modo per rispondere, più che alle necessità delle economie decolonizzate, alle esigenze delle economie colpite dalle crisi petrolifere degli anni Settanta. Il debito estero è stato ed è ancora in gran parte una fantastica fortuna, un’assicurazione sine die di entrate nelle casse dei paesi ricchi. Infatti estinguerlo nei tempi e nei modi pretesi dalle misure e dalle condizioni imposte era ed è semplicemente impossibile; ripagarlo, invece si che è possibile, e pure diverse volte, con interessi da capogiro.

* RAFFAELLA CHIODO KARPINSKY, freelance. Lavora con l’Uisp nel Dipartimento Internazionale. Osservatrice per l’Awepa, l’Ue, l’Onu in Africa e con l’Osce in Russia. Coordinatrice di Sdebitarsi. Tra le promotrici degli Stati Generali della solidarietà e cooperazione internazionale, della “Rete Internazionale delle Donne per la Pace”, membro del direttivo
della Tavola della Pace. Siti: www.radioarticolo1.it; www.womenetworkforpeace.net;
www.perlapace.it; www.peacegamesuisp.org.


Continua nel libro Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo

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